http://www.scultura.org/portal_memberdata/giovannino-carboni#critic Riprese in occasione della mostra dei bronzi realizzati nel 2009 (N°12 – 1976, N°10.3 – 1975, N°13 – 1976, N°10.2 – 1975) e dei quadri degli anni '70 che li hanno ispirati. Biografia
... Giovannino Carboni è nato a Dolianova (Cagliari) dove vive e lavora. Quasi tutta la sua produzione è concentrata negli anni settanta quando a vent’anni si concedeva di creare a matita i suoi mondi surreali fatti di concetti e riflessioni. Qui il desiderio di dare tridimensionalità a quei mondi con la creazione di statue in bronzo. Ora, a cinquantasei anni, nulla gli impedisce di dare sfogo al suo progetto di vedere i suoi mondi in tre dimensioni così nel duemilanove decide di trasporre in bronzo i personaggi-concetti che a vent’anni creò. Critica LE OPERE DI GIOVANNINO CARBONI, UN VIAGGIO TRA LA METAFISICA E IL SURREALISMO Un artista che riprende il proprio progetto iniziato trent’anni prima è senz’altro degno di nota. Se in questo lungo intermezzo ha vissuto pienamente senza perdere di vista l’attenzione e lo stupore per ciò che lo circondava può tornare con una nuova consapevolezza sui propri lavori. Il concetto rimane lo stesso ma viene visto e mostrato da diverse sfaccettature. E’ per questo che accolgo con interesse il fatto che Giovannino Carboni dopo trent’anni abbia voluto mantenere la promessa con se stesso di vedere i suoi quadri diventare bronzi. E questo lo dico soprattutto da un punto di vista di comunicazione artistica perché i suoi disegni si prestano benissimo ad essere statue. Benché il disegno sia bidimensionale l’artista rende talmente chiaramente i tratti del mondo surreale da lui ideato, ed è tanto accorto nel dare suggerimenti visivi che possiamo viverci dentro ed immaginarci la tridimensionalità laddove non c’è. La meticolosità del disegno è accostabile ad un’incisione. Le figure sono in un primo momento spiazzanti perché appaiono deformate, ma prima di entrare nel cliché della tragicità e rassegnazione che una figura umana deformata e supplicante potrebbe suggerire, capiamo che quello rappresentato non è il nostro mondo, ma un mondo parallelo in cui ciò che viene presentato è assolutamente normale per il luogo in cui è collocato. Un mondo parallelo che vuole comunicare con noi e dirci qualcosa di noi che forse troppo immersi nella routine non abbiamo mai notato. Gli ampi spazi mostrati nei quadri vogliono far soffermare l'osservatore ora su uno ora su l’altro particolare per meglio comprenderlo. Qui capiamo che ciò che Carboni mostra sono concetti e qui lo supportiamo quando poco più che ventenne sceglie di trasporre i suoi personaggi-concetto in bronzo. Perché le opere realizzate in bronzo, grazie alla forte plasticità, si fanno portavoce di una determinata idea su cui si può riflettere singolarmente come sotto una lente d’ingrandimento. Per questo le figure diventate statue bronzee non possono essere mostrate indipendentemente dai disegni, ma hanno le stampe delle tele alle loro spalle in modo da poter respirare la loro aria e vivere all’interno del loro paesaggio, questa volta da uniche protagoniste. Le sue opere non possono non richiamare trasversalmente il linguaggio surrealista di Yves Tanguy, laddove vediamo paesaggi desertici e apocalittici, e quello metafisico di De Chirico per sensazione di sospensione e attesa che suscitano ma anche per le forme amebiche e i soggetti quasi imbalsamati. Aldilà di ogni citazione trovo che l’artista presenti una forte originalità. Laura Casu (Storica dell’arte) La presente critica è stata pubblicata assieme al comunicato stampa il 27/2/'10 su Exibart e il 26/2/'10 su Cronaca Online COME SUGGERIRE IL PARADISO MOSTRANDO L'INFERNO Non è difficile avvicinarsi ad un quadro di Gianni Carboni e trovarsi catapultati in un inferno di corpi mutilati e sofferenti che, quando non hanno le gambe impigliate in grovigli di alberi o in blocchi di cemento cercano di trascinarsi verso un futuro migliore, sempre se non muoiono soffocati da mostri o tagliati in due dalle lancette di orologi mastodontici. Ma facendo un bel respiro ci si ritrova nuovamente davanti al quadro perché si è scoperta la magia che l’ha creato e la ricchezza di positività che trasuda. E’ un po’ come ammirare il paradiso guardando scenari infernali perché i personaggi che Carboni ci propone non sono persone, ma messaggi per lo spettatore, e i suoi quadri sono delle vere e proprie riflessioni grafiche. L’artista si interroga sulla condizione umana e accompagna emozionalmente lo spettatore nella sua riflessione cosicché un mostro che stritola una persona esanime ci provoca un malessere all’altezza del cuore, una sensazione di impotenza che ci stringe le viscere e ci fa contrarre i muscoli della fronte. Siamo davanti all’esasperazione data dal troppo pensare che l’artista ha minuziosamente analizzato e compreso lanciando un messaggio positivo per antitesi. L’uomo che dovrebbe usare la mente per i propri comodi non riesce in questo ovvio intento, che sarebbe la via d’uscita da questa condizione o il paradiso suggerito dall’artista, ma si fa succube del suo mezzo che mal indirizzato provoca un sovraffaticamento che contrae e accartoccia su di se il sofferente fino a stritolarlo. Lo spettatore scoperto il trucco vive sì la dannazione, ma affronta un percorso catartico che non solo lo fa riflettere su tematiche molto profonde, ma che altresì lo porta a conclusioni inaspettatamente positive ed illuminanti. Nella produzione di Carboni troviamo molti suggerimenti per una vita migliore dati per antonimia. Una volta scoperta la chiave interpretativa lo spettatore non solo esorcizza determinati stati d’animo, ma ne esce arricchito. Andrea Grassi (Sociologo) Il presente commento è stato pubblicato su Inpress Magazine il 26/2/'10 UN' IMPRESSIONE INCISIVA E POTENTE Osservando i disegni e i bronzi di Gianni Carboni, è impossibile non restare avvinti da una morsa gelida, proprio come quel corpo che, in una gabbia di falangi e nervi, si rassegna alla prigionia e al baratro. Ci troviamo di fronte a noi stessi, contemporaneamente vittime, carnefici e spettatori disfatti e impotenti. È durissimo il percorso sotterraneo di questi disegni, un viaggio di trent'anni che li ha visti emergere dal suolo bronzei, spolpati e tramutati in creature d'ombra, radici e ossa. La vittima ha strisciato fino a consumarsi gli arti e, all'ombra di imperativi o convenzioni impossibili da eludere, ha perso anche i suoi lineamenti. Ha perso la sua identità, completamente deumanizzata e resa più simile a un ramo secco e ritorto o a un dannato in vita, la cui pena è soffrire in un luogo che si nutre della sua sofferenza. Anche il carnefice ha strisciato sottoterra, torturando la sua vittima lungo tutto il percorso. Riaffiorato in superficie, riesce a compiere un ultimo gesto da tempo meditato. Un atto estremo come, per esempio, gettare nel baratro un corpo straziato o stritolare all'ultimo rintocco un essere antropomorfo già sgretolato dal tempo. Ma quell'uomo in croce, croce egli stesso (e, direi, croce di se stesso), che si mangia le mani, esprime ancor più delle altre opere quest'idea di vittima e di carnefice. Non vi è alcuna differenza tra colui che infligge il dolore e colui che lo vive perché la sofferenza viene dall'uomo stesso. È l'uomo, col suo troppo pensare e con i vincoli che si autoimpone, la scintilla della propria pena. E quando riesce a comprendere questo, non può far altro che assistere impassibile allo strazio. Le corde che lo imbrigliano diventano via via più grosse e pesanti, tramutano in radici e, quando ogni speranza è sciolta, in ossa e tendini che rendono vano ogni tentativo di evasione. Ciò che maggiormente mi inquieta, al di là della forma, è la forza di queste opere che non muore nel bronzo ma scava e penetra nell'animo di chi le osserva. E se l'artista può tentare di esorcizzare determinati stati d'animo mediante l'atto creativo, cosa potrà mai fare l'osservatore? Marco Diana (Scrittore) Il presente commento è stato pubblicato su Cronaca Online il 26/2/'10 Mostra altro